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Jacaranda

Riceviamo e pubblichiamo una pagina tratta dai "diari di viaggio" del nocese Davide Carrelli.

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Lisbona, maggio 2017

Ci fu offerto un passaggio appena prima del tramonto. Superammo quel tratto di A2 e il traffico metropolitano in appena mezzora e ci ritrovammo a São Pedro de Alcântara, circondati da eleganti giardini. Allo zaino di Tommy era appeso un paio di mutande, ancora umide, lavate in fretta con gli altri nostri indumenti quella mattina a Setubal. Finalmente avevamo incontrato un posto perfetto per fare il bucato e stenderlo al sole ed era la Casa dei Pescatori, un edificio immenso che si affacciava sul mare e che era frequentato dalla gente del porto. C’erano donne impegnate a cucire le reti o chine su grandi tinozze e uomini che si insaponavano accanto alle fontane. Anche noi ci davamo da fare prima di venire cacciati da un pescatore. Fu parecchio arrogante e ci scambiammo parole poco garbate. Ero furioso perché infondo non facevamo nulla di male ed eravamo stati trattati come criminali. Finii per litigare anche con Tommy, che giustificava il pescatore, ma a me sembrava solo che gli piacesse contraddire me. E per quanto ne sappia era proprio così. Perché io ero un gran testardo e davo l’impressione di voler sempre avere ragione su tutto e Tommy si divertiva a mostrarmi che molto spesso sbagliavo anche io. Fatto sta che ci allontanammo con il nostro fagotto di vestiti fradici e cercammo un nuovo luogo in cui lasciarli asciugare.

Arrivammo a Lisbona mentre la città si svestiva sotto le luci dei locali e dei lampioni, ansiosi di gettarci tra le sue gambe, accarezzare i suoi segreti più intimi e oscuri che solo di notte essa concede. Ben presto venimmo travolti dall’ebbrezza e l’euforia ci trascinò per ore da un vicolo all’altro del Barrio Alto. Fu un’altra notte da ricordare ma, come sempre accadeva, quando anche l’ultimo bicchiere si era svuotato, quando l’ultima voglia si era assopita, della mia anima stanca restava solo una grande malinconia. I palazzi si rivestivano di specchi per ricoprirmi di vergogna, figure orrende mi seguivano, ridevano di me. Ormai non riconoscevo più il mio volto riflesso, il viso stanco e afflitto da quegli incubi che tornavano in ogni mia giornata. Decidemmo di cercare un luogo per riposare e non fu mai difficile come quella notte. Arrancammo con gli zaini in spalla per diversi chilometri senza incontrare un posto dove poter accampare. Non avevamo idea di dove ci stessimo dirigendo, eravamo persi, distrutti dalla stanchezza. Incontrammo un piccolo giardino con una grande quercia in una parte desolata di Belém e a me sembrò perfetto, ma Tommy riteneva fosse troppo visibile ai passanti. In effetti lo sarebbe stato, al mattino, ma non mi importava. Ero sbronzo, uno straccio, avrei voluto solo stendermi accanto a quell’albero e dormire e non mi importava di niente e di nessuno e mi chiedevo come mai a Tommy importasse ancora delle regole e del decoro, dopo tutta quella fatica. E allora si impuntò con voler smontare l’abitacolo della tenda e piazzarci con il solo telo sul tetto di un basso edificio poco distante dalla quercia, in modo da non essere visibili a nessuno. Ero furioso ed era un’idea insensata, tempo sprecato, un altro dei suoi stupidi piani per contraddirmi e io che non avevo le forze per discutere, seduto, appoggiato alla quercia, lo ricoprivo di insulti. Ma Tommy con ostinazione, dopo aver smontato la tenda salì agilmente su di un cassonetto e poi sul tetto e cosi issò i nostri zaini e tenendomi paziente la mano mi aiutò a salire lentamente mentre continuavo a inveire su di lui e continuai a farlo finchè finalmente non mi addormentai, su quel tetto.

Dormii di un sonno profondo, rigenerante e alle prime luci del mattino quando aprii gli occhi e sporsi la testa dal sacco a pelo, rimasi incantato. Eravamo affacciati sul molo, l’acqua del Tago luccicava quieta, inerte e il sole mi donava un delicato tepore sul viso. Quando anche Tommy si svegliò restammo insieme a guardare quello spettacolo inatteso. Iniziammo a ridere, ripensando alla notte appena trascorsa. Ero sinceramente dispiaciuto del mio comportamento e gli chiesi perdono. Quel posto inusuale si era rivelato di grande valore e sebbene anche Tommy si scusasse ero io ad aver sbagliato. Stavo imparando molto da lui e lui imparava da me. In quei primi quattro mesi di viaggio era stato un perfetto compagno di strada e anche se litigavamo spesso, ciò che davvero contava è che quella mattina su quel tetto non c’era nessun altro. Ci eravamo solo io e lui a guardare sognanti il mondo dall’alto, come gabbiani in volo, liberi e distanti, leggeri, mentre la città si risvegliava sotto di noi e gente in giacca e cravatta già si affannava nelle strade per arrivare puntuale, chissà dove, chissà perchè. Solo io e lui ogni santo giorno sulla strada, per scrollarci di dosso le catene, per capire qualcosa di più, convinti come eravamo che vivere è molto di più di quello scorrere di lancette, convinti che, prima o poi, l’anima avrebbe trovato la strada di casa. Tommy mise su del caffè e mi aspettò sul tetto mentre io feci un giro per comprare la colazione ed elemosinare qualche sigaretta e restammo ancora qualche ora lì sospesi a celebrare la nostra libertà.

Finire a vagare in una grande città era sempre un problema. Non solo trovare un posto per dormire era spesso un’impresa, ma difficile era anche venirne fuori, perché significava attraversarla tutta a piedi per trovare un luogo adatto all’autostop. Ma era una giornata meravigliosa e camminare era particolarmente piacevole, nonostante il peso dei nostri zaini. Dal Rossio a Plaza del Comercio, tutto intorno a noi sbocciava e gli splendidi alberi ricoprivano i marciapiedi di petali viola. In una di queste strade tra la gente ferma ad una fermata del bus mi fermai a osservare una sottile figura, una profilo chiaro, quasi trasparente, che con un delicato gesto della mano accomodava dietro l’orecchio una ciocca di lunghi capelli neri. E ancora una volta mi parve di riconoscere Marinella. Mi capitava di pensarla ancora e quelli per me erano rari istanti di innocenza, una pausa illusoria e cristallina da quel mondo osceno, fatto di vizi e di eccessi a cui lei non era mai appartenuta. E così mi tuffavo nel ricordo di quella tua purezza, nella sincerità di quel tuo sguardo che in quegli anni che furono nostri volesti regalarmi e che ancora qualche volta mi toglie il respiro. E di ciò che in quegli anni avevamo chiamato amore resta un vento che lascia cadere intorno a noi una lenta danza di promesse, addii e petali di Jacaranda.

Dove stai andando? Su quale autobus salirai? Chissà se ci salirò anche io, chissà a quale fermata. Chissà se un giorno ci incontreremo tra quei sedili e decideremo di scendere insieme ad una fermata non segnalata, lontani dal mondo che ci ha separato. Distolsi lo sguardo da quella figura per evitare quel silenzio assordante che circondava ogni ragazza che non eri tu e ti lasciai lì, a quella fermata, mentre chiacchieravi con un venditore di fiori o qualche sconosciuto, come era tuo solito fare, e parlavi di quanto bella fosse Lisbona quella domenica di maggio.

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